rimozione dal grado disciplinare: principio di ragionevolezza e gradualità

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Un militare della G.d.F. indagato per il reato di furto di alcuni beni di quotidiano consumo vede, all’esito delle indagini, archiviata la propria posizione.
In sede di giudizio disciplinare la Commissione di Inchiesta, appositamente nominata, lo ritiene non meritevole di conservare il grado emettendo il provvedimento della rimozione dal grado per motivi disciplinari ed, indi, della destituzione dall’impiego.
Recatosi dall’avvocato militare il graduato intende avere contezza della legittimità del detto provvedimento che ritiene invero sproporzionato rispetto all’entità dei fatti e quindi studiare la farttibilità del ricorso.
Sul punto osserva l’Avvocato militare:
“Sulla base della normativa che in materia disciplinare attribuisce rilievo alla oggettiva gravità dei fatti connessi ed alla recidiva, la più recente e consolidata giurisprudenza  (Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353; Sez. IV, 21 agosto 2009, n. 5001) ha ritenuto che sussiste il vizio di eccesso di potere quando il provvedimento disciplinare appare ictu oculi sproporzionato, nella sua severità, rispetto ai fatti accertati (pur se essi abbiano dato luogo ad una condanna in sede penale, cosa peraltro neppure accaduta nella specie).
Infatti, per qualsiasi dipendente (anche per il militare che abbia prestato il giuramento di fedeltà), un isolato comportamento illecito può giustificare la misura disciplinare estintiva del rapporto di lavoro quando si possa ragionevolmente riconoscere che i fatti commessi siano tanto gravi da manifestare l’assenza delle doti morali, necessarie per la prosecuzione dell’attività lavorativa.
Per il principio della graduazione delle sanzioni e tenuto conto delle regole riguardanti la recidiva (per le quali i fatti acquistano una maggiore gravità, in quanto commessi dal dipendente già incorso in una precedente sanzione), l’Amministrazione non può peraltro considerare automaticamente giustificata l’estinzione del rapporto di lavoro per il solo fatto che il dipendente abbia commesso per la prima volta un reato doloso: a maggior ragione, la violazione del principio di proporzionalità sussiste quando, come nella specie, non risulti univocamente la responsabilità per il reato commesso da altri e vi sia stato un disdicevole comportamento post delictum (peraltro, di per sé non costituente reato).
In sede disciplinare, infatti, deve esservi la specifica valutazione dei fatti accaduti, poiché la loro lievità può giustificare una sanzione diversa da quella massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti, se il dipendente commetta ulteriori mancanze e addirittura reati): altrimenti opinando, qualsiasi reato doloso o comportamento disdicevole potrebbe essere posto a base della misura disciplinare del rapporto di lavoro, ciò che non si può affermare, in considerazione della prassi amministrativa e del principio di proporzionalità, affermatosi nella pacifica giurisprudenza.
Correttamente è stato rilevato con specifico riferimento a un provvedimento di rimozione di un appartenente al Corpo della Guardia di Finanza – che la proporzione fra addebito e sanzione è principio espressivo di civiltà giuridica (cfr. IV Sez., 10 maggio 2007, n. 2189; 18 febbraio 2010 n. 939), comportando la sproporzione della sanzione la violazione del principio di ragionevolezza e di gradualità della sanzione stessa.
Neppure appare condivisibile – pur in presenza di contrastanti orientamenti giurisprudenziali sul punto – la tesi dell’Amministrazione secondo la quale la violazione degli obblighi assunti con il giuramento prestato, quale che sia la sua gravità, giustifica la comminatoria della sanzione espulsiva perché indice di carenza di qualità morali e di carattere e comunque lesivo del prestigio del Corpo.
Che le violazioni di doveri comportamentali costituiscano un vulnus al giuramento prestato è incontrovertibile; ma che esse debbano essere tutte punite con la massima sanzione (id est, quella espulsiva), come se il vulnus fosse di identico livello nei vari casi, è assunto che si rivela palesemente in contrasto con i precitati principi di ragionevolezza e proporzionalità, laddove risulti ontologicamente diversa, nelle varie ipotesi, l’incidenza della violazione su quei doveri di fedeltà e lealtà assunti dal militare con la prestazione del giuramento e laddove risulti altresì differente il livello di carenza di qualità morali e di carattere nelle diverse fattispecie.
Del resto, è la stessa circolare del Comando generale n. 40000/1152/98 ad introdurre la possibilità di calibrare la sanzione in misura variabile per le condotte che non realizzano “in pieno” la violazione del giuramento: tale principio deve ritenersi invero applicabile, ad avviso del Consiglio di Stato, a maggior ragionne quando non risulti univocamente una responsabilità penale del dipendente.