Il caso riguarda quello di un militare raggiunto da plurime sanzioni disciplinari ( di corpo).
All’esito dell’iter dei ricorsi amministrativi tutte le sanzioni venivano annullate in via amministrativa ( anche dopo ricorso gerarchico ed in un caso di ricorso al Capo dello Stato).
Rivoltosi all’avvocato militare il sottoufficiale agiva in giudizio per ottenere il risarcimento del danno patito ( relazionale, biologico e più in generale alla salute) per l’acuta sofferenza psicologica cagionata dall’Amministrazione con tale modo di procedere.
Sul punto si richiama la più recente giurisprudenza secondo cui anche in ” assenza” della prova di ” mobbing” ( l’intento persecutorio) spetta comunque al lavoratore il risarcimento del danno:
“si è infatti affermato e va qui condiviso il principio per cui “nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili” (Cass. 5 novembre 2012, n. 18927; analogamente, Cass. 3 marzo 2016, n. 4222);
la norma applicabile è l’art. 2087 c.c., norma che non è vincolata al determinarsi di una condotta vessatoria complessiva, ma è destinata ad operare anche rispetto a singoli comportamenti inadempienti o illegittimi che siano causa di pregiudizi alla salute .