degradazione militare ed interdizione dai pubblici uffici: irrilevanza del provvedimento formale di espulsione dalle FF.AA.

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Con sentenza in data …… la Corte Militare di Appello ha confermato la sentenza del Tribunale militare di ….che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di Tizio in ordine al reato di mancanza alla chiamata (artt. 151 e 1541 n. 1, C.P.M.P.) dichiarando lo stesso estinto per sopravvenuta amnistia, ex D.P.R. n. 75 del 1990, sull’assunto della cessazione dell’assenza arbitraria in data——–, allorché divenne irrevocabile la sentenza della Corte di assise di appello di….. che aveva dichiarato l’imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.
Ricorre il P.G. militare, denunziando la violazione dell’ art. 28 C.P.M.P. e sostenendo che l’assenza deve ritenersi cessata in data ….., allorché il Tizio fu, ai sensi della suddetta norma, espulso dalle Forze Armate per degradazione, all’uopo invocando la tesi secondo cui la condanna per reato comune che importi l’interdizione dai pubblici uffici è improduttiva di effetti militari fino all’adozione di un formale provvedimento di espulsione dalle FF.AA., a norma dell’art. 6 del D.P.R. n. 237 del 1964.
Il ricorso è infondato.
L’art. 34, comma primo, c.p.m.p stabilisce, infatti, che la pena accessoria militare della degradazione comportante, ex art. 28, comma primo, dello stesso codice, la definitiva perdita della qualità di militare e della capacità di prestare qualunque servizio, incarico od opera per le forze armate dello Stato, decorre, “a ogni effetto”, dal giorno in cui la sentenza (da cui discenda, ex art. 33 c.p.m.p., la suddetta pena accessoria) è divenuta irrevocabile. Tra gli effetti omicomprensivamente considerati dalla norma deve, necessariamente, ritenersi incluso anche quello relativo alla cessazione della assenza arbitraria e, dunque, della permanenza del reato di mancanza alla chiamata) a nulla rilevando che l’art. 411 c.p.m.p. preveda una fase di esecuzione della pene accessorie (e, quindi, anche della degradazione) da parte dell’Autorità militare, i cui provvedimenti al riguardo non potranno che essere ricognitivi degli effetti già verificatisi “ex lege”.
Conclusioni diverse non possono trarsi neppure dal disposto dell’art. 6 del D.P.R. n. 237 del 1964, richiamato dal precedente di questa Corte invocato dal ricorrente, che, senza minimamente contraddire la previsione dell’art. 34, comma primo, c.p.m.p., si limita, in materia di leva e reclutamento, a sancire l’esclusione (“a priori”) dal servizio militare e dall’appartenenza alle FF.AA. di coloro che, in applicazione della legge penale, siano incorsi nella Interdizione perpetua dai pubblici uffici (comportante invece, ex art. 33 c.p.m.p., la degradazione per chi abbia già acquistato lo “status” di militare).
Non influente sulla decisione del presente ricorso, deve, infine, ritenersi la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge n. 1168 del 1961, lett. f), e dell’art. 34, n. 7, della legge n. 1168 del 1961, limitatamente alla mancata previsione d’instaurazione di procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della rimozione, di cui a sentenza n. 363 del 1996 della Corte costituzionale (in G.U., I s.s., n. 45 del 1996), richiamata nella discussione odierna dal P.G. militare requirente, giacché, anche a prescindere dal diverso ambito e dalla diversa ottica della pronunzia (volta ad ampliare le garanzie e la tutela del militare colpito da rimozione), determinante è la distinzione ontologicamente esistente tra la pena accessoria della rimozione, non comportante, di per sè, la cessazione dal servizio sino all’adozione della misura espulsiva da parte della P.A., e quella della degradazione, comportante, invece, per sua natura, la definitiva perdita della qualità di militare, senza ulteriore spazio per valutazioni discrezionali da parte della P.A. medesima.
A ciò si aggiunga che la stessa Consulta, nella sentenza n. 197 del 1993 (Foro it., 1994, I, 385), ha espressamente riconosciuto l’intangibilità dell’ambito applicativo e degli effetti (automatici) della pena accessoria dei pubblici uffici, contemplata dal codice penale, dalla quale l’ art. 33 c.p.m.p. fa discendere quella, militare, della degradazione.