danno di immagine della p.a. anche in caso di esercizio dell’azione penale del P.m. per un reato comune

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Si riporta di seguito uno stralcio della pronuncia n. 522/14 della 1^ Sez. Appello della Corte dei Conti in ordine alla configurabilità del danno all’immagine della p.a. in caso di esercizio dell’azione penale, ai sensi dell’art. 129 disp.att. c.p.p., anche in caso di soli reati comuni.
” …….Non sussiste, ad avviso di questo Collegio, alcuna preclusione per il pubblico ministero presso la Corte dei conti ad agire in giudizio per il risarcimento del danno all’immagine, discendente dalla commissione di reati comuni e non puntualmente dalla commissione specifica di delitti contro la pubblica amministrazione (delitti di cui agli articoli 314/360 c.p.).
La natura dei reati che, secondo l’art. 17, comma 30ter, secondo periodo DL n.78/2009, conv. in L.n.102/2009, come modificato dal DL n.103/2009, conv. in L. n.104/2009, consentirebbero la condanna giuscontabile per danno all’immagine, deriverebbe unicamente e tassativamente dai “… delitti contro la pubblica amministrazione, previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale”, richiamati dall’art. 7 L. n. 97/2001. Questo Collegio ritiene, che sia possibile, invece, agire in giudizio, innanzi al giudice contabile, per il ristoro del danno all’immagine, discendente anche a seguito di condanna penale per altro tipo di reato, diverso da quelli compresi nell’alveo dei ‘delitti contro la pubblica amministrazione’.
Si tratta – a ben vedere – di una questione, risolta positivamente in tal senso e che ha già formato oggetto di varie pronunce da parte di questo stessa Sezione giudicante (cfr, in terminis, Sez. I giur.le centrale, n.809/2012 e n.1039/2013) e di altre Sezioni di primo grado e d’appello della Corte dei conti, le cui argomentazioni motivazionali appaiono giuridicamente corrette ed esaustive, che questo giudice non ritiene vi siano nuovi elementi, sostanziali o processuali, nella fattispecie, atti a scalfirle e ritiene, perciò, di poterle confermare e far proprie, con alcune specifiche note aggiuntive. (Cfr., ex plurimis, Corte dei conti, Sezione III app., 13.4.2012, n. 286; Sezione giurisdizionale Toscana, n. 90/2011, cit.; Sezione giurisdizionale Lombardia, nn. 640, 641, 765/2009; nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e 813/2010, n.109 del 2011; Sezione giurisdizionale Lazio, n. 462/2009).
In realtà, le argomentazioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale n. 355/2010, citata dall’appellante Procura regionale a favore della propria tesi e dalla Sezione giudicante di prime cure a contrario e che – nel dichiarare infondata la questione di costituzionalità che era stata sollevata in ordine all’art. 17, c. 30-ter in esame – ha affermato che la norma in questione debba essere letta nel senso che il legislatore avrebbe“… delimitato, sul piano oggettivo, gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo la risarcibilità del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione soltanto in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare categoria di delitti”, non fanno affatto emergere una  lettura interpretativa di tipo strettamente ‘vincolante’, per il Giudice di merito, nel senso, cioè, che il reato di truffa (per ciò che qui interessa) non possa di per sè consentire una condanna per danno all’immagine in sede giuscontabile, in quanto posto al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dall’art. 7, L. n.97/2001 (che fa appunto espresso riferimento ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale), ma al contrario, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, poichè è una sentenza di rigetto e dunque – a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, che esplicano una piena efficacia erga omnes – determina eventualmente un vincolo solo per il giudice del procedimento, nel quale la relativa questione è stata sollevata. Ciò induce a ritenere che, in tutti gli altri procedimenti – compreso perciò l’attuale – il giudice rimanga libero e conservi il suo potere-dovere di interpretare, in piena autonomia, la norma denunciata (anche in difformità dall’interpretazione fatta propria dalla Corte Costituzionale), sempre che, ovviamente, il risultato ermeneutico sia adeguato ai principi costituzionali. (Cfr., in terminis, Cassazione penale, Sezioni Unite, n. 23016 del 2004; Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Toscana, 18.3.2011, n. 90).
Per motivo di ciò, questo Giudice giuscontabile può in totale autonomia aderire ad una interpretazione dell’art. 17, comma 30-ter, diversa da quella fatta propria dalla Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 355 del 2010 (secondo cui, l’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico, da parte della procura contabile, potrebbe essere attivata soltanto in presenza di un reato ascrivibile alla categoria dei “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”). E invero, come già ampiamente posto in luce da numerosi arresti della giurisprudenza contabile, già citati infra e che questa Sezione pienamente condivide e fa propri, la Corte dei conti ben può pronunziare condanna al risarcimento di un danno all’immagine, pur dopo la novella legislativa di cui al ripetuto art. 17, comma 30-ter, anche se il danno deriva non da un reato contro la pubblica amministrazione ma da un reato comune. Va detto, infatti, sotto tale profilo che la norma in esame non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione giuscontabile per danno all’immagine, ma si limita a rinviare solamente ai “casi” e ai “modi” previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97; tale riferimento implica, da un lato, la comunicazione al P.M. contabile della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata per i delitti contro la pubblica amministrazione, previsti nel capo I, titolo II del libro II del codice penale (i “casi” indicati dalla norma) e, dall’altro, l’obbligo per il P.M. penale di comunicare al P.M. contabile, ex art. 129 delle norme di attuazione del c.p.p., l’esercizio dell’azione penale per tutti i reati, di qualsiasi natura essi siano, che abbiano cagionato un danno per l’erario (i “modi” indicati dal medesimo Legislatore).
Quella appena descritta costituisce senz’altro corretta interpretazion,   costituzionalmente orientata della norma in questione, posto che una limitazione del numero o della tipologia di reati, suscettibili in astratto di causare danno all’immagine della pubblica amministrazione, non sarebbe, secondo questo collegio giudicante, né sorretta da profili di ragionevolezza – che la Corte costituzionale spesso invoca nell’interpretazione delle norme – né giuridicamente immune da censure.
D’altra parte, è vero anche che mentre per i reati contro la pubblica amministrazione di cui al capo I del titolo II del Libro II del codice penale, è richiesta la sentenza di condanna irrevocabile perché il P.M. possa attivarsi, tant’è che rimane sospeso il decorso della prescrizione – come non ha mancato di segnalare la Procura regionale, nel suo atto d’appello – in tutti gli altri casi, attivabili, invece, ex art. 129 disp. att. c.p.p., l’informativa da parte del PM penale avviene all’atto dell’esercizio dell’azione penale stessa, per un qualsiasi reato, che abbia anche cagionato un danno per l’Erario (compreso un danno all’immagine) e, quindi, anche l’azione del Procuratore Regionale può essere esercitata ancor prima dell’intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, non essendovi, in questo caso, nemmeno una sospensione della prescrizione.
Una interpretazione, conforme a Costituzione, porta, quindi, a valorizzare l’intero articolato della norma, nei suoi variegati aspetti, che, altrimenti, non potrebbe avere né un significato accettabile, né risulterebbe giuridicamente immune da censure. Infatti, il richiamo ai casi e modi, di cui alla legge n. 97/2001, porta a considerare che la perseguibilità del danno all’immagine, per i delitti contro la pubblica amministrazione, di cui al capo I del titolo II del Libro II del codice penale, sia stata disciplinata con norma speciale, che richiede l’esistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per consentire l’azione in giudizio da parte del PM attore e che, negli altri casi, invece, (quelli previsti dall’art. 129  delle disposizioni di attuazione del c.p.p.) sia sufficiente il mero inizio dell’azione penale, per dare impulso all’azione del PM contabile. In quest’ottica, la sospensione del decorso della prescrizione opererebbe solo nei casi degli specifici delitti contro la pubblica amministrazione, per i quali è richiesta la sentenza irrevocabile di condanna, mentre potrebbe rivelarsi impraticabile, in altre distinte ipotesi di reato-comune, laddove, attendere l’esito finale del giudizio penale, con sentenza di condanna irrevocabile, prima di poter iniziare l’azione significherebbe, di fatto, paralizzare o quantomeno dilazionare di molto e rendere poco agevole, e quindi, vanificare l’attività del PM giuscontabile, realizzandone un impedimento giusprocessuale, del tutto illegittimo, se non addirittura illecito.
Che per i delitti contro la pubblica amministrazione si sia sentita una maggiore necessità di tutela, è fatto che non meraviglia. Infatti i reati comuni non hanno come necessario presupposto un rapporto di servizio con una pubblica amministrazione; tuttavia, il rapporto di servizio, spesso, può rappresentare – in moltissimi casi dell’esperienza comune – una tipica occasione per commetterli.
Detto rapporto di servizio, beninteso, necessario ed assolutamente imprescindibile, per l’incardinamento della giurisdizione contabile, in ipotesi anche di danno erariale, può non esservi (e non c’è) per i reati comuni, ma spesso è proprio in occasione dello svolgimento della propria funzione di competenza, come nel caso all’esame, che un funzionario, un amministratore o un impiegato pubblico può incorrere nella commissione di un reato, sia pure comune (Truffa; nel caso all’esame, aggravata, ai danni dello Stato) ma sicuramente con effetti sulle pubbliche finanze (Fisco). Le conseguenze non patrimoniali di detto reato dovrebbero allora rimanere impunite sul fronte giuscontabile dell’immagine e non dovrebbe essere perseguito, oltre ad un danno patrimoniale, anche l’ulteriore danno non patrimoniale, ma avente riflessi sul patrimonio pubblico, discendente dalla grave perdita di prestigio e dal grave detrimento dell’immagine della personalità della pubblica amministrazione, solo perché trattasi di fattispecie di ‘reato comune’?
Anche detto danno, a parere del collegio giudicante, deve essere perseguito e punito, non meno del correlativo danno patrimoniale, in ipotesi di reato comune.
 
Diversa è dunque la necessità di tutela delle differenti ipotesi di reato, in cui la qualifica rivestita risulti, più o meno rilevante, nella commissione del reato e per il concretizzarsi del danno all’immagine, ma uguale deve essere la perseguibilità di entrambi i danni (patrimoniale e non, diretto e indiretto), nel senso che il danno all’immagine, che può emergere per tutti i tipi di reato, specifici e comuni, che abbiano avuto come contraltare anche la lesione di un bene giuridico essenziale, costituzionalmente tutelato, quale, ad esempio, la lesione del prestigio e dell’onore di una pubblica amministrazione, deve poter essere perseguito senza restrizioni, a prescindere che discenda da reati comuni oppure da fattispecie specifiche di reati contro la pubblica amministrazione. Va, conclusivamente, affermato, da un punto di vista generale, che l’interpretazione di una norma di legge non può che basarsi, prima di tutto, sulla lettera di essa e sulla necessità di dare un senso al testo, in coordinazione con i disposti di altre norme di pari rango o di rango superiore: in tale prospettazione, il richiamo all’art. 129 c.p.p., operato dalla legge n. 97/2001, ha un significato proprio e ulteriore rispetto alla previsione specifica che circoscrive i reati contro la pubblica amministrazione, discendenti da sentenza irrevocabile di condanna e fonti di danno all’immagine. Peraltro, è solo appena il caso di annotare che il decreto legislativo n. 33/2013, all’art. 46, ha previsto un danno all’immagine della pubblica amministrazione, per fattispecie diverse da quelle dei delitti contro la pubblica amministrazione, addirittura per ipotesi anche non penalmente rilevanti, pur nella vigenza della legge di cui trattasi. Pertanto, l’interprete e lo stesso giudice, chiamato ad applicare la legge, ha il diritto-dovere di dare un senso ragionevole e compiuto all’intero articolato normativo, operando le distinzioni del caso ed estendendo l’area della risarcibilità del danno all’immagine, nel contemplare non solo i delitti propriamente contro la pubblica amministrazione ma anche quelli comuni, comunque compiuti da un soggetto legato da rapporto di servizio con la pubblica amministrazione stessa….”