abuso di autorità ed insubordinazione: rassegna di giurisprudenza militare

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 L’avvocato militare fa il punto sullo ” stato dell’arte” della giurisprudenza penale in materia di abuso di autorità ed insubordinazione particolarmente rilevante in materia di rapporti di lavoro dove, spesso, il confine con il c.d. ” mobbing” è sfuggente e di difficile interpretazione.
Vale comunque il principio che in ambiente militare non possono tollerarsi condotte arbitrarie o insubordinate: di seguito la rassegna delle sentenze più interessanti dell’intero 2012.
Abuso di autorità e insubordinazione
Quanto alle modalità della condotta, si è affermato che “L’espressione “figlio di puttana” la frase “mi hai
rotto il cazzo”, l’accusa “mi hai fatto due palle così” si appalesano in sé ingiuriose dappoichè del tutto
idonee ad offendere l’onorabilità e il decoro di qualsiasi persona normale, ma, nello specifico, se riferite da
un sottoposto ad un superiore gerarchico nell’esercizio delle rispettive funzioni istituzionali, funzioni di
tutela dell’ordine pubblico e di contrasto alla criminalità, vieppiù acquisiscono una valenza gravemente
insultante non tollerabile, un carattere dirompente dell’unitarietà dell’ufficio e della funzione pubblica
esercitata, una indiscutibile valenza penalistica” (sent. 2620 del 28.9.2012).
In relazione al disposto di cui all’artr. 199 c.p.m.p., la Corte ha ritenuto integrata la connessione tra la
minaccia e la ragioni di servizio in un’ipotesi in cui l’imputato aveva motivato l’intervento delittuoso di 5
natura minatoria “asserendo che, se la parte lesa non avesse “ritirato” la denunzia, la pendenza delle
indagini avrebbe compromesso la missione in Kosovo del sottufficiale” (sent. 566 del 23.5.2012).
In termini ricognitivi della pregressa giurisprudenza sul punto, si è inoltre affermato: “Nel ravvisare la
ricorrenza della causa di esclusione di cui art. 199 cod. pen., nella condotta di “un militare in licenza in abiti
civili che, in stato di ebrezza alcoolica, inveiva all’indirizzo di appartenenti dei carabinieri, intervenuti in un
locale pubblico su segnalazione di alcuni avventori” questa Corte Suprema di Cassazione, previo richiamo
delle disposizioni di cui agli articoli 5 della legge 11 luglio 1978, n. 382, e 8 del d.p.r. 18 luglio 1986, n. 545,
in relazione al negativo scrutinio circa la ricorrenza di alcune delle condizioni per la applicazione del
Regolamento di disciplina militare (norme attualmente trasfuse nell’art. 1350 del Codice dell’ordinamento
militare emanato con decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66), ha motivato che l’imputato “non aveva
fatto nessun riferimento alla propria condizione di militare” (Analogamente questa Sezione ha affermato la
sussistenza della clausola dell’articolo 199 cod. pen. con sentenza n. 14353 del 12.03.2008 – dep.
07.04.2008, Ruchini, Rv. 240015, sulla base del rilievo che “l’imputato, pur militare paracadutista agì [..]
come un cittadino qualsiasi, senza vantare, né opporre alcuna qualità riferibile al suo stato militare”; e, con
sentenza 5 maggio 2008, n. 19425, Carofalo, ha annullato con rinvio la decisione impugnata sotto il profilo
dell’omesso accertamento sul punto se l’imputato, il quale agiva “al di fuori delle attività di servizio attivo e
indossava abiti civili [..] avesse fatto alcun riferimento alla propria condizione di militare” nel perpetrare il
delitto di ingiuria ad inferiore in danno di alcuni agenti di polizia giudiziaria “che lo avevano fermato per
contestargli alcune infrazioni al Codice della strada”).
Mentre, proprio in termini con successivo arresto, questa Corte ha definitivamente chiarito che “il reato
militare di insubordinazione con minaccia o ingiuria è punibile pur quando il soggetto agente commetta il
fatto fuori dal servizio, ove si qualifichi come militare nei confronti dei superiori persone offese” (Sez. I, n.
14351 del 12.03.2008 – dep. 07.04.2008, Spano, Rv. 240014)” (sent. 2621 del 28.9.2012).
 In altra vicenda si è ribadito che “il reato militare di insubordinazione con minaccia o ingiuria è punibile pur
quando il soggetto agente commetta il fatto fuori dal servizio, ove si qualifichi come militare nei confronti
dei superiori persone offese (Sez. 1, n. 14351 del 12.03.2008, dep. 07.04.2008, Spano, Rv. 240014).
Il principio affermato è stato logicamente correlato all’indirizzo espresso dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 367 del 2001, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 199 cod. pen. mil. pace, che scrimina per certi reati (tra i quali l’insubordinazione) i
fatti commessi per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, osservando che la norma non deve
essere interpretata (nel caso della insubordinazione) nel senso che si deve guardare solo alla condizione 6
della persona offesa dal reato, potendo rilevare – per una lettura costituzionalmente orientata – anche la
correlazione tra la situazione in cui si trovi ad agire l’autore del fatto e il servizio militare.
Il principio è stato riferito anche a precedente intervento di questa Corte (Sez. 1, n. 16413 del 03.03.2005,
dep. 02.05.2005, Andresini, Rv. 231573), alla cui stregua (in fattispecie riguardante un militare in licenza e in
abiti civili che, in stato di ebbrezza alcolica, aveva inveito all’indirizzo di appartenenti all’Arma dei
carabinieri, intervenuti in un locale pubblico su segnalazione di alcuni avventori) la minaccia o l’offesa
all’onore di un superiore (art. 189 cod. pen. mil. pace), rivolta dal militare appartenente alle forze armate al
di fuori dell’attività di servizio attivo e non obiettivamente correlata all’area degli interessi connessi alla
tutela della disciplina, rientra nella clausola di esclusione del reato di insubordinazione, prevista dall’art. 199
cod. pen. mil. pace, coerentemente rimarcandosi che il soggetto agente nella fattispecie non si era
qualificato come militare ed esulava del tutto, nella situazione creatasi, il profilo della tutela della disciplina.
L’indicato indirizzo interpretativo è pure confortato dagli artt. 5 della legge n. 382 del 1982 e 8 del D.P.R. n.
545 del 1986, che trovano il loro presupposto di operatività in presenza di una delle seguenti condizioni:
svolgimento da parte del militare di un’attività di servizio, presenza in luoghi militari, uniforme indossata dal
militare, ed esplicita indicazione della propria qualità di militare in relazione a compiti di servizio ovvero nei
rapporti con altri militari in divisa o che si qualifichino come tali.
Alla stregua di questi principi, che il Collegio condivide e riafferma, nel caso in esame, è del tutto corretta e
resiste alle infondate proposte obiezioni la ritenuta esclusa applicabilità della fattispecie incriminatrice di cui
all’art. 189 cod. pen. mil. pace, per la sussistenza della causa di esclusione del reato prevista dall’art. 199
dello stesso codice, poiché non risulta che il ricorrente, che si trovava in permesso e indossava abiti civili,
abbia esternato la propria condizione di militare; i carabinieri sono intervenuti in ragione della loro qualifica
di appartenenti alla forza pubblica e non in quanto superiori gerarchici dell’imputato; l’imputato ha
proferito le frasi oggetto della contestazione all’indirizzo dei militari per ragioni attinenti al servizio di ordine
pubblico da essi svolto, ma per cause del tutto estranee al servizio svolto da esso stesso, o collegate in
itinere in modo del tutto estrinseco e occasionale all’area degli interessi connessi alla tutela del servizio e
 
della disciplina” (sent. 2619/12 del 28.09.2012).