legittimo per il TAR il licenziamento del militare che offenda con epiteti razzisti l’ufficiale superiore in grado

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Interessante e significativa pronuncia dei giudici amministrativi in materia di licenziamento ( rimozione dal grado)

del militare che con i suoi comportamenti oggettivamente razzisti si ponga al di fuori dei valori della Costituzione ( tra cui il rispetto

del principio di eguaglianza) che l’Esercito e le Forze Armate devono fattivamente perseguire

( omissis….) è stato sottoposto a
procedimento disciplinare perché dichiarato responsabile – come da sentenza
irrevocabile – del reato diffamazione pluriaggravata e continuata, in relazione alla
condotta perpetrata tra il (………) ai danni di un ufficiale di origine….

– suo superiore in linea gerarchica – fatto oggetto di epiteti a sfondo
razziale durante le cerimonie dell’alzabandiera e nel corso delle attività di
addestramento, sempre alla presenza di numerosi commilitoni.
Il Tribunale Militare di Verona, con sentenza n. ( ) del (…),
condannava l’imputato alla pena (non sospesa) di un anno e sei mesi di reclusione
militare, poi ridotta dalla Corte Militare d’Appello a un anno e tre mesi (sentenza n.
…). La Corte di Cassazione annullava quest’ultima decisione
limitatamente alla mancata applicazione del beneficio della sospensione
condizionale della pena, che veniva concessa all’esito del giudizio di rinvio dalla
Corte Militare d’Appello, con conferma delle restanti statuizioni .
2. All’esito del procedimento penale l’Amministrazione dava avvio all’inchiesta formale, ai
fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare del ricorrente e
dell’eventuale irrogazione della sanzione di stato.

( omissis……) A conclusione della seduta, la Commissione dichiarava il ricorrente non meritevole
di conservare il grado.
Con il successivo decreto del ……… il Ministero della Difesa –
condividendo il giudizio espresso dalla Commissione – disponeva nei confronti del
ricorrente la sanzione di stato della perdita del grado per rimozione, in quanto:
– “ai sensi dell’art. 653 comma 1 bis, del Codice di Procedura Penale, la sentenza
penale di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per la responsabilità
disciplinare per quanto attiene all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua
illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”;
– “le esternazioni poste in essere […], oggettivamente connotate da contenuti di
discriminazione razziale, sono state ripetute sistematicamente per diversi anni e
sono avvenute davanti a giovani militari a lui affidati per la loro istruzione”;
– “fatti di così notevole gravità hanno un evidente riflesso tanto sul servizio quanto
sul prestigio e l’immagine della Forza Armata di appartenenza e risultano
incompatibili con i doveri imposti a ogni militare, specie se rivestito di un grado,
dal Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materi a di Ordinamento
Militare […] tanto da potersi formare, in seno all’Amministrazione, il legittimo
convincimento che” il sottufficiale “non possa essere utilmente recuperato al
rispetto dei principi che governano il sodalizio militare”.

……( omissis) Il ricorrente impugna tale decreto, sostenendo (1° motivo) che l’Amministrazione
si sarebbe appiattita sulle risultanze poste alla base della condanna penale (dando
luogo ad una sorta di automatismo), senza però tenere conto delle caratteristiche del
pur grave fatto contestato, che non avrebbe avuto un evidente riflesso sul servizio e
sul prestigio della Forza Armata. Il provvedimento non sarebbe stato preceduto da
un’approfondita istruttoria né risulterebbe corredato da una motivazione autonoma,
congrua, logica e coerente, anche in riferimento agli ottimi precedenti di carriera
del ricorrente, che avrebbe garantito elevati standard sia durante il lungo periodo in
cui si sarebbero verificate le condotte, sia, successivamente, durante il processo
penale. L’applicazione della sanzione disciplinare, in aggiunta alla già intervenuta
condanna alla pena detentiva, violerebbe inoltre il principio del ne bis in idem,
vertendosi in entrambi i casi di misure punitive, accomunabili per natura e grado di
severità.

Il Tar ha rigettato il ricorso nel merito osservando quanto segue :

( omissis…) Deve essere innanzitutto premesso che, in seguito alla condanna irrevocabile
pronunciata al termine del giudizio penale, non sussiste alcun dubbio in merito alla
responsabilità del ricorrente per il fatto addebitatogli, consistente nell’aver
ripetutamente offeso ( omissis)  la reputazione di un ufficiale di
origini ( omissis), pronunciando – nel corso del servizio, alla presenza di
numerosi militari, e spesso durante l’alzabandiera e gli addestramenti – le frasi
diffamatorie e ingiuriose sopra riportate, tutte espressive di un’inescusabile
connotazione discriminatoria fondata sull’appartenenza etnica della persona offesa
e sulla rappresentazione di detta appartenenza come ragione di discredito e
disonore.
Invero, “l’art. 653, comma 1-bis, c.p.p. (come introdotto dalla legge n. 97 del 2001)
stabilisce la regola generale per cui ‘La sentenza penale irrevocabile di condanna
ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle
pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua
illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso’, costituendo
pertanto il presupposto giuridico fondamentale, non contestabile nelle sue
statuizioni, dal quale si diparte il procedimento disciplinare, ferme restando le
garanzie proprie di quest’ultimo” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 5 ottobre 2016, n. 1206;
Corte cost., sentt. n. 186 del 2004 e n. 336 del 2009).
Diversamente da quanto opinato dal ricorrente, l’Amministrazione era dunque
tenuta ad esaminare la condotta, pur ai fini della decisione disciplinare, attenendosi
all’accertamento consacrato nella decisione del giudice penale, senza che ciò
potesse configurare, del resto, la contestata violazione del principio del ne bis in
idem sanzionatorio (T.A.R. Veneto, Sez. I, 21 febbraio 2022, n. 332). Come infatti
chiarito dalla giurisprudenza, in materia di rapporto di lavoro dipendente, “non
integra una violazione del principio del ne bis in idem l’irrogazione, per un fatto
corrispondente a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione disciplinare
che, per qualificazione giuridica, natura e grado di severità non può essere
equiparata a quella penale” (C. App. Ancona, n. 12 del 2020).
Alla stregua di tali premesse si deve quindi concludere come l’addebito sia
incontrovertibilmente fondato e come, nel contempo, sussista il potere
dell’Amministrazione di esaminarlo sotto il profilo disciplinare, ai fini
dell’adozione della sanzione di stato corrispondente alla gravità della condotta.
Devono di conseguenza essere respinti i profili di censura diretti a contestare la
sussistenza del fatto e i conseguenti presupposti per l’esercizio del potere
sanzionatorio.
8. Venendo ora alla contestata gravità della sanzione inflitta al militare – censurata
per difetto di proporzionalità e di motivazione, in quanto non si sarebbe tenuto
conto della personalità dell’incolpato e dei favorevoli precedenti di servizio -, si
deve osservare che la misura espulsiva è stata decisa e applicata a seguito di
un’approfondita ed adeguata istruttoria (come emerge dalla documentazione versata
in atti), al termine della quale l’Amministrazione ha tenuto conto, oltre che dei
precedenti di servizio, delle osservazioni rese dall’interessato, della speciale gravità
del fatto nonché del suo elevatissimo disvalore.
Va subito soggiunto, in merito, che il ricorrente non ha in realtà introdotto alcuna
efficace contestazione riguardante la ricostruzione dei fatti addebitatigli, essendosi
piuttosto limitato a dibattere dei precedenti di servizio (talvolta connotati da
valutazioni eccellenti), dell’atteggiamento ostile serbato dall’ufficiale sottoposto
alle condotte denigratorie, nonché del dispiacere provato per il coinvolgimento del
Corpo di appartenenza.
Riguardo all’aspetto della proporzionalità della sanzione inflitta, rispetto alla gravità
della condotta contestata, ritiene in ogni caso il Collegio che non siano condivisibili
i vizi prospettati dal ricorrente.
Va richiamato il consolidato orientamento secondo cui è incontestabile l’ampia
discrezionalità che connota le valutazioni dell’Amministrazione in ordine alla
sanzione disciplinare applicata nel concreto (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 15
marzo 2012, n. 1452). Di recente, si è inoltre osservato che “la scelta della sanzione
disciplinare da infliggere ad un militare costituisce espressione di un potere
discrezionale dell’Amministrazione il cui esercizio è presidiato dal principio di
proporzionalità, il corollario di tale principio sul piano disciplinare comporta, a
tutela di esigenze di civiltà giuridica, il c.d. gradualismo sanzionatorio, che postula
una proporzione tra il fatto e la relativa sanzione; poiché l’accertamento della
proporzionalità e della graduazione della sanzione rispetto agli illeciti contestati
attiene al merito della scelta della sanzione, esso esula dal sindacato del giudice
amministrativo, salvo che una tale scelta sanzionatoria riveli il vizio di eccesso di
potere attraverso sintomi quali la manifesta illogicità, la manifesta
irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento dei fatti” (Cons. St.,
Sez. II, 7 febbraio 2022, n. 862).
Nella specie (fermo l’accertamento del fatto in tutta la sua evidente gravità, come
sancito nel giudicato penale), deve essere inoltre osservato che la scelta di irrogare
la sanzione della perdita di grado per rimozione non risulta manifestamente illogica,
irragionevole o sproporzionata, sia perché la condotta appare di per sé
particolarmente grave, in quanto collegata, come accertato dalle pronunce del
giudice penale, da un deliberato intento denigratorio aggravato da sentimenti di
odio razziale (oggettivamente incompatibili con il dovere – che grava su ciascun
militare – di osservare le leggi dello Stato e, con esse, i principi fondativi della
Repubblica); sia perché l’interessato, più volte sollecitato dalla Commissione di
disciplina, non sembrerebbe aver manifestato significativi segnali di resipiscenza,
preferendo lamentare (benché la sua responsabilità fosse stata definitivamente
affermata dal giudice penale) l’ingiustizia della condanna subita e l’inattendibilità
delle prove a suo carico, piuttosto che prendere le distanze dal proprio
comportamento e dai sentimenti di odio razziale che gli sono stati addebitati.
La mancata documentazione di chiari indizi di pentimento (o quanto meno
dell’avvio di un percorso di rielaborazione delle proprie azioni) da parte del
ricorrente viene così a compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con
l’Esercito, il quale, del resto, è pur sempre tenuto (analogamente ad ogni
articolazione dello Stato) a riaffermare e assicurare fattivamente “la condanna, da
parte della società, del razzismo e dell’odio etnico” (vd. Corte E.D.U., Sez. grande
chambre, 6 luglio 2005, n. 43577) e a escludere pertanto chi – come il ricorrente –
con le proprie azioni e i propri convincimenti si ponga in contraddizione con tali
obblighi (insiti anch’essi nel dovere di difesa della Patria).